Di Alessia Dorigoni

Detto ciò non vi stupireste se vi dicessi
che le cose a cui ho pensato guardando questo film sono state: l’Orlando
furioso nella macchina del tempo di Wells ovattato dalla neve della
Negri e di Zanzotto, in una leggerezza bauschiana. Seguite il mio ragionamento
e vedrete che converrete con me, alla fine del racconto, ve lo assicuro; rendo
il mio sguardo familiare, svelando poche delle infinite corrispondenze che da
un film come questo potrebbero nascere e che sicuramente saranno nate anche da
voi.
Ho letto per tutto il film un intreccio
che faceva da leitmotiv, anzi l’intreccio delle storie diveniva lui stesso
colonna portante. Storie su vari livelli, storie d’amore a vari livelli, storie
di soldi a vari livelli, temi sociali a vari livelli. Non è che essi stessi
fossero trattati a vari livelli, più in profondità o più superficialmente; ma
le problematiche trattate venivano sviscerate e impersonificate da personaggi
che le rappresentavano loro stessi in maniera più o meno superficiale e
mettendo in luce differenti sfaccettature (già questo sarebbe una lunga storia
a se stante…). Passiamo così dall’amore per la stessa donna, Garance, del
bandito-gentiluomo Lacenaire, all’amore più o meno fedele di Fréderic, a quello
di facciata del conte di Montray per arrivare a quello più patito, più profondo
e più “vero” di Baptiste amato follemente a sua volta da Nathalie. Garance che,
simpatizzante per Lacenaire, pur amando profondamente Baptiste si ritrova a
cedere inizialmente alla corte di Fréderic per poi sposare il conte. Insomma
intrecci ingrovigliati, che non possono non far ricordare l’entrelacement
dell’Orlando Furioso. Intrecci che si intrecciano a loro volta con altri temi
cruciali come quello ad esempio del denaro, tradotto anche dalle numerose
futili multe date dal proprietario del teatro, dal clochard che fa l’elemosina
fingendosi cieco per poi andare a bere al bar. Tutti hanno un’altra faccia,
tranne i personaggi più ingenui, più bambini da un certo punto di vista, che
rimangono fedeli ai loro ideali.
E a condire questi intrighi, intralci e
intrecci c’è uno sfondo nato da accostamenti quasi anacronistici
visti con il senno di poi. Ecco il perché della macchina del tempo di
Wells, in un ambiente di teatro che mi ha fatto venire in mente lo steampunk.
Ma non nel vero senso della parola, ma nel clima che gli oggetti dello
steampunk creano. Artefatti e macchine costruite attraverso conoscenze non
esistenti durante l’epoca vittoriana adattandoli alla tecnologia moderna,
creando per l’appunto, un accostamento anacronistico. Rivitalizzazione di
congegni rotti e inutilizzati riletti con gli occhi della tecnologia odierna
cercando però di mantenerla nascosta. Come sarebbe stato il passato se il
futuro fosse accaduto prima? In realtà è il teatro che spesso mi innesca questa
sensazione di piacevole confusione, di stili, di mondi, di tempo. Ma è proprio
da questa accozzaglia mentale che pop out, silenziosamente, candidamente e
ovattato, il personaggio del mimo: muto, bianco, puro, pulito, immacolato,
innocente nella sua semplicità. Ma non un mimo qualunque ma l’homme blanc,
Baptiste: Jean-Louis Barrault. Ed ecco che a questo punto la sua leggerezza il
suo essere così niveo non possono che intrecciarsi nei miei pensieri con la
neve che ovatta ogni cosa. Cade la neve. E a rileggere le righe della Negri mi
sembrava di rivedere i movimenti di Baptiste: Sui campi e sulle strade
silenziosa e lieve volteggiando, la neve cade. Danza la falda bianca nell'ampio
ciel scherzosa, poi sul terren si posa, stanca. In mille immote forme sui tetti
e sui camini sui cippi e sui giardini, dorme. Tutto d'intorno è pace, chiuso in
un oblìo profondo, indifferente il mondo tace. Si ma, che ne sarà della
neve alla fine? E che sarà di noi e di Baptiste. E tu perché, perché tu? Dubbi
zanzottiani che sono decisamente veggenti. Il volteggiare leggiadro di questo
mimo, che mi ha fatto venire in mente le “linee pregne di sentimenti, emozioni
e stati d’animo spesso impossibili da rendere a parole” dell’arte della Bausch,
ad un certo punto si incrina. L’uomo vestito di bianco si cristallizza, si
uniforma, segue gli schemi dettati dalla società e si ritrova ad essere un uomo
incravattato con moglie e figlio. Non ha più un vestito comodo che lo lascia
respirare e vivere, ma un vestito stretto, imposto dalla società, imposto dagli
altri, autoimposto (quasi come ne Il laureato di Webb). Un vestito grigio, come
il suo volto che fa traspirare una velata malinconia pur vivendo una vita di
successo. Ma ecco che ad un certo punto si ritrova a rincorrere un sogno, il
suo sogno, si è riacceso. Ma proprio quel vestito bianco che prima lo rendeva
libero, adesso lo blocca, lo ferma, lo porta ad essere un amante perduto in un
fiume di persone vestite di bianco.
Il Poeta assomiglia al principe dei nembi
// che abita la tempesta e ride dell'arciere;// ma esule sulla terra, al centro
degli scherni,// per le ali di gigante non riesce a camminare. (L’albatro,
Baudelaire)
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