Di Giacomo Sartori
Pubblicato su Nazione Indiana il 27 novembre 2012.
http://www.nazioneindiana.com/2012/11/27/autismi-29-il-vuoto-di-senso-della-letteratura/
Cari ragazzi, permettetemi di chiamarvi così, io devo
confessarvi che non conosco più di tanto questo romanzo che avete deciso di
trasporre a teatro. Questo testo che vi ha parlato e sul quale volete lavorare
è mio, nel senso che sono io che lo ho scritto. Sono io che gli ho dato vita –
vita cartacea, per molti versi più pregnante e fervida della nostra – ai
personaggi che in esso si dibattono, e soprattutto la sua lingua è il frutto
del mio lavoro. Di questo sono sicuro. Ma mentirei se vi dicessi che so perché
l’ho scritto, e mentirei ancora di più se vi facessi credere che so cosa vuol
dire. La verità è che non ho la minima cognizione del perché esista, non ho la
più pallida idea se significhi qualcosa. Il fatto che descriva una contingenza
sociologica riconoscibile potrebbe far pensare che io detenga o ritenga di
detenere le chiavi per decifrare quella stessa realtà: non è così.
Ma non fraintendetemi: mi fa piacere, un piacere sincero,
che vi interessiate a lui. Mi dà sollievo pensare che gli anni che ho passato a
produrlo non siano inutili, e quindi per estrapolazione che nemmeno quello che
faccio adesso – perché la mia vita resta ancora la scrittura – sia vano. È un
palliativo che mi conforta e mi aiuta a vivere. Come potete immaginare non è
facile dedicare mesi e mesi, anni, a un’attività che non ha alcun senso. Se
però adesso un senso voi lo trovate, vuol dire che il mio agire ha una sua
giustificazione, che forse la mia esistenza non è inutile. Per molte ragioni
che adesso non ho voglia di disseppellire questo sillogizzare mi suona fallace,
quasi un’impostura, e soprattutto illusorio, ma mi fa lo stesso bene. Come
tutti gli uomini vivo anch’io di appagamenti fallaci e di illusioni. Sono
anch’io un essere umano, sono anch’io sensibile – e forse più di altri – ai
complimenti.
Quando ne parliamo io fingo di conoscerlo fin nelle sue
indicibili intimità, fingo di essere quell’imperioso soggetto che ne detiene le
redini, o comunque ne ha detenuto le redini. Questo è un esercizio che mi
ripugna ma al quale sono abituato, perché mi si chiede di farlo anche in altre
occasioni. Quando un libro viene pubblicato già la mia testa è altrove, già ho
dimenticato il testo, o meglio ho cominciato a dimenticarlo – ho bisogno di
dimenticarlo, una necessità fisica, legata a un istinto di sopravvivenza – devo
però parlarne come se tutti i miei pensieri fossero ancora lì, come se fosse
qualcosa che ha ancora a che fare con me. È una menzogna alla quale mi presto a
malincuore: mi costa fatica – parlo di una misurabile tensione che produce
malessere, non è una metafora – mentire. Lo considero però un prezzo da pagare,
un male minore. Considero che l’inebriante libertà che mi governa quando scrivo
valga bene questo agile pegno sociale. Nella vita tutti noi ci troviamo a
sostenere ruoli che hanno lati spiacevoli, non vedo perché io dovrei esserne
esente. Altri scriventi preferiscono trincerarsi in un’intonsa torre di avorio,
io ho l’impressione che quell’arroganza mi sarebbe ancora più penosa. Senza
contare che ne ricavo pur sempre, torno alla mia vanità, qualche soddisfazione.
Facevo l’esempio di un testo recente, figuriamoci allora un
romanzo che va per la sua strada già da vari anni. Mostrare una complicità nei
suoi confronti mi apparirebbe come inscenare un’intimità con un ex-amore che
non frequento da tempo, quando ormai più niente ci lega, ed è anzi lievitata
una mutua diffidenza. Del resto non siete tardi, e voi stessi vi siete accorti
che conoscete meglio di me la vicenda e i personaggi. Leggo sulle vostre facce
lo stupore, ogni volta che lo constatate. Ma se ci pensate è normale che sia
così: voi il testo lo avete letto e riletto (come si dovrebbe leggere sempre, e
come quasi nessuno più legge), io non lo bazzico da molto tempo. Anzi, si può
dire che non l’ho mai fruito nella sua interezza e a mente fresca, senza
tensioni e senza a priori, con mente innocente e per certi versi ingenua, senza
ravvisare il seguito, come cioè si devono leggere i testi. È per questo che è
ormai più vostro che mio. O meglio, è solo vostro.
La mia ignoranza è ben più sostanziale di quello che
potrebbe sembrare, non riguarda solo i dettagli. Permea le linee di fondo, la
sua stessa ragione di essere. Non so con precisione che rapporti intrattenga
con la realtà effettuale e riconoscibile (molti hanno pensato che il suo
movente fosse quello) che pretende descrivere, e che io non conosco (l’ho
immaginata per induzione), pur avendola per certi versi nel sangue, e quindi
conoscendola meglio di chiunque altro: davvero non lo so. Men che meno potrei
allora dire se ha un qualche valore, se vale la pena leggerlo, se appunto emana
un qualche senso. Certo nella mia testa ci sono ipotesi e convinzioni, certo
rifletto anche su questo, come sulla mia pratica attuale di scrittura, ma devo
constatare che non sono elucubrazioni davvero profonde, sono pensieri viziati
dall’andazzo e dagli assilli del momento, contradditori e per così dire interessati:
restano pur sempre mille miglia sotto l’orbita solitaria dove evolve il testo.
Non è quindi solo una questione di memoria che scioglie via
via gli ormeggi, non è questione solo di tempo che passa. Quello che mi è
impossibile è dare un giudizio generale. Ci ho lavorato per anni, ma mentre mi
davo da fare pensavo mano a mano ai vari dettagli non al tutto. Non giudicavo,
sgobbavo. Certo miravo a raggiungere un’unità, ma mi focalizzavo sui
particolari anche infimi, sulle singole frasi, sulle inezie. Perseguivo un
gusto globale, ma era un fine sempre irraggiungibile, per molti versi
cangiante, sempre più lontano mano a mano che mi avvicinavo, non una realtà,
non un compagno di viaggio. La mia visione era centrifuga, non centripeta.
Nella mia testa c’era quella lucidità da alcaloide che solo la scrittura sa
mantenere nel tempo, ma non avevo uno sguardo d’insieme, come nella vita non si
capiscono gli amori e le passioni che ci travolgono. La visione d’insieme la si
può avere solo a posteriori, solo quando non si è più coinvolti, quando si è
ormai passati ad altro. Solo l’io che ha destituito quello precedente può
giudicare il suo predecessore. Del resto qualsiasi giudizio letterario è sempre
arbitrario e già datato, intrinsecamente errato. La letteratura non è fatta per
essere giudicata, ma per essere fruita, omaggiata.
Non vorrei però che mi fraintendeste, la mia non è una
dismissione di responsabilità. Mi considero in tutto e per tutto responsabile
delle relazioni ambigue e per certi versi perverse che il testo ha con il
cosiddetto mondo reale, come anche di ogni sua pecca, dei suoi eventuali pregi.
Considero di essere il legittimo destinatario di tutte le critiche e delle
eventuali lodi. E in fondo non ho timori in questo senso. Ho passato anni a
limare ogni rotellina – per usare una metafora ormai obsoleta, ma che rende il
lato artigianale e per certi versi impreciso che sempre ha avuto e sempre avrà
la scrittura – dell’intricato ingranaggio. E quindi mi sento piuttosto sicuro
del fatto mio. E se ho fallito, nella vita ci sono anche i fallimenti (ritengo
anzi che nel percorso di chi scrive le disfatte siano necessarie), lo ho fatto
dando il massimo di me stesso.
Se mi sforzassi potrei diventare esegeta di me stesso.
Qualche volta – quando appunto mi ritrovo in situazioni che mi costringono a
farlo – mi cimento. Mi trasformo in uno storico dell’io che sono stato, divento
un critico letterario che analizza i testi che ho scritto. Scavo alla ricerca
dei motivi episodici e profondi, metto in relazione, interpreto e decripto,
risalgo e deduco, ricostruendo successioni e temi, pedinando il loro divenire.
È un esercizio che non mi arreca alcuna soddisfazione, alcuna gioia, e
soprattutto per il quale non mi sento dotato. È un compito utilitario che
svolgo quando proprio non posso farne a meno, esattamente come mi obbligo a
riepilogare i miei movimenti precedenti quando non trovo le chiavi di casa.
Altre persone adorano questo lavorio di dissezione, questa autopsia di un
cadavere già freddo, non io. Sento che non è il mio terreno, che non è lì che
posso dare il meglio di me stesso, che anzi è lì che vengono alla luce i miei
manifesti limiti. Io amo battermi con le vite impettite ma anche folli delle
parole, amo tendere come archi nervosi le frasi, non mi interessa dissezionare,
diagnosticare.
Cari ragazzi, da queste parole potreste forse dedurne che
non credo nel potere gnoseologico e forse anche demiurgico della letteratura. E
invece sono persuaso che nel suo fragoroso vuoto di senso pulsino le
impalpabili verità che possono dare significato alla nostra esistenza. Non
possiamo coglierle, come non si possono imprigionare senza ucciderle le
farfalle, ma possiamo pur sempre ammirarle. Penso addirittura che testi
letterari si annidino le divinità che abbiamo smarrito per strada con il
cosiddetto progresso, o comunque la nascosta nostalgia che ad esse ci lega. A
volte mi sembra anzi che la funzione precipua della letteratura sia per
l’appunto quella di aprirci al divino, a quello che gli uomini hanno chiamato
il divino, e che forse abita ancora in tutti noi, anche se non sappiamo più
percepirlo. Penso che alcuni scriventi attuali arrivano ancora a infilzare con
le loro frasi l’aurea di qualche sfaccendata ma pur sempre fulgida divinità:
spesso si tratta di individui con le pezze sul culo o che annaspano nelle
bassezze, spesso nella loro stessa meschinità. Cari ragazzi, anche se è forse
patetico chiamarvi così, penso più prosaicamente che i testi che ho scritto non
mi appartengono.
MARIA GRAZIA RUGGIERI
RispondiEliminaMi sento comunque destinataria di questa lettera, che trovo piena di amore e di realtà.
La consistenza delle cose che non ci appartengono assomiglia così tanto al giusto senso della vita e del dono...alle mani vuote e allo sguardo già altrove, liberi di creare di nuovo e di dimenticarci cosa, di lasciar andare i prodotti di quel lavoro, noi stessi e le nostre ossessioni biografiche.
Che nulla resti dov'è nè al suo propietario!
Che sia necessario e urgente...fare un'altra cosa!
grazie.